Insulti sessisti sul lavoro: quando le parole diventano discriminazione
- Studio Legale NC

- 7 ott
- Tempo di lettura: 3 min
La Cassazione riconosce la “vittimizzazione secondaria” e tutela le lavoratrici
Il caso
Può un insulto sessista rivolto a una collega essere considerato “semplice litigio” o costituisce discriminazione di genere?
La Corte di Cassazione (Sez. lavoro, sent. n. 33746 del 21 dicembre 2024) ha risposto chiaramente: si tratta di discriminazione e le lavoratrici che denunciano hanno diritto a piena tutela.
La vicenda nasce in un Comune dell’Emilia-Romagna: una dipendente aveva segnalato al Sindaco che un collega, durante un acceso diverbio, si era lasciato andare a gesti e parole volgari a sfondo sessuale, tipici di una “mascolinità aggressiva” e umiliante. Invece di tutelarla, l’amministrazione aveva aperto un procedimento disciplinare anche nei suoi confronti, accusandola di aver esagerato nella denuncia.
Il caso è arrivato fino in Cassazione, che ha confermato la condanna del datore di lavoro per discriminazione.
Cosa ha detto la Cassazione
Secondo la Suprema Corte:
• Gli insulti sessisti assumono un valore discriminatorio specifico quando sono rivolti a una donna, poiché rientrano in un linguaggio patriarcale che mira a sminuirne la dignità.
• Il datore di lavoro non può punire chi segnala discriminazioni o molestie, salvo che si accerti in giudizio una denuncia calunniosa o manifestamente infondata.
• Anche la sola contestazione disciplinare, pur senza sanzione, è illegittima: costituisce infatti un “trattamento sfavorevole” che crea una vittimizzazione secondaria, umiliando ulteriormente la vittima e scoraggiando altre possibili denunce.
La Corte ha richiamato la normativa italiana (Codice delle Pari Opportunità e disciplina sul whistleblowing) e le convenzioni internazionali, come la Convenzione di Istanbul e la Convenzione ILO n. 190, che impongono agli Stati di prevenire ogni forma di violenza e molestie nei luoghi di lavoro.
Cosa possono fare le donne in questi casi
Chi subisce comportamenti simili non è sola: esistono strumenti legali concreti.
Ecco i principali passi da seguire:
1. Segnalare l’episodio per iscritto al datore di lavoro, al responsabile HR o all’ufficio competente.
2. Rivolgersi alla Consigliera di Parità provinciale o regionale, che può intervenire anche giudizialmente.
3. Presentare denuncia penale, se i fatti integrano reati (molestie, minacce, atti osceni, ecc.).
4. Agire in giudizio civile o del lavoro per ottenere il riconoscimento della discriminazione, l’annullamento di eventuali sanzioni disciplinari e il risarcimento del danno.
5. Avvalersi delle tutele del whistleblowing, che vietano qualsiasi ritorsione contro chi segnala illeciti.
È fondamentale sapere che la lavoratrice non rischia automaticamente sanzioni se la segnalazione non viene pienamente provata: le tutele vengono meno solo in caso di denuncia calunniosa o manifestamente falsa.
L’importanza di regolamenti aziendali chiari
La sentenza dimostra che non basta reagire “caso per caso”: le aziende devono dotarsi di regolamenti interni contro le molestie e le discriminazioni di genere, da rendere pubblici e accessibili a tutti i dipendenti.
Questi regolamenti dovrebbero:
• definire in modo chiaro cosa costituisce molestia o discriminazione;
• indicare procedure di segnalazione sicure e riservate;
• proteggere chi denuncia da ritorsioni e vittimizzazione secondaria;
• promuovere una cultura aziendale basata sul rispetto e sulla parità.
📌 Checklist operativa: cosa fare se sei vittima di insulti sessisti sul lavoro
• ✍️ Annota subito l’accaduto (data, ora, luogo, parole/gesti, eventuali testimoni).
• 📧 Fai una segnalazione scritta al tuo datore di lavoro o ufficio HR.
• 👩⚖️ Contatta la Consigliera di Parità del tuo territorio per assistenza gratuita.
• 🚓 Valuta una denuncia penale se si tratta di molestie o altri reati.
• ⚖️ Chiedi tutela giudiziaria per ottenere il risarcimento e la cancellazione di eventuali sanzioni.
• 🛡️ Invoca le protezioni del whistleblowing se lavori nel settore pubblico o in aziende coperte dalla normativa.
Conclusione
Gli insulti sessisti non sono “parolacce da ufficio”: rappresentano una forma di discriminazione di genere che la legge riconosce e condanna.
Le lavoratrici hanno il diritto – e il dovere – di segnalare questi episodi, senza timore di subire ritorsioni.
È auspicabile che tutte le organizzazioni, pubbliche e private, adottino regolamenti chiari e trasparenti per garantire ambienti di lavoro sicuri, rispettosi e realmente paritari.
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